A colloquio con il patriarca di Antiochia dei siri sulla visita del Papa in Libano
Verità e giustizia in arabo
Giampaolo Mattei
«La parola araba haqq ha due significati: verità e diritto, nel senso di giustizia. Nessun’altra lingua, che io sappia, ha questa particolare ricchezza espressa da una sola parola. Per i popoli arabi non è forse una coincidenza significativa, e anche un impegno, che ci sia un legame così stretto tra verità e giustizia?». Per Ignace Youssif III Younan, dal 2009 patriarca di Antiochia dei Siri la cui sede è proprio nel quartiere siriano di Beirut, la capitale del Libano, «se la violenza è sempre un orrore in Medio Oriente lo è forse ancora di più». Parole che il patriarca pronuncia «con dolore», costatando quanto invece «la pace sia purtroppo al momento così tanto lontana dalla vita della nostra gente».
Siriano di origine, il patriarca rilancia — nell’intervista al nostro giornale — la proposta di un tavolo per la pace per fermare le violenze e trovare una soluzione pacifica e condivisa che garantisca più democrazia e il rispetto dei diritti umani. E in questa prospettiva si aspetta molto dall’ormai imminente visita di Benedetto XVI, atteso a Beirut venerdì 14 settembre.
E proprio l’indissolubilità tra verità e giustizia, su cui lei sta puntando tutto, sarà probabilmente anche il cuore del messaggio del Papa.
Verità e giustizia non si possono separare: è un fatto che nel mondo arabo dovrebbe essere sempre tenuto in considerazione assoluta ogni volta che si pronuncia, consapevolmente, la parola haqq. È un’idea che ho rilanciato intervenendo al Sinodo dei vescovi del 2008 dedicato alla Parola di Dio e ripreso poi al momento di iniziare il mio servizio come patriarca. È sotto gli occhi di tutti che non ci possa essere verità senza giustizia né giustizia senza verità. Soprattutto è un linguaggio comprensibile a tutti in Medio Oriente.
Di diritti umani e giustizia, tracciando quasi un profilo della primavera araba, ha trattato anche il Sinodo dei Vescovi sul Medio Oriente, nel 2010, di cui lei è stato presidente delegato.
Il Sinodo per il Medio Oriente ha suscitato nuove speranze e non nascondo che abbiamo forti aspettative per l’esortazione apostolica post-sinodale che il Papa verrà a consegnarci personalmente. L’idea di fondo è semplice: riaffermare a chiare lettere la volontà dei cristiani e dei musulmani di vivere insieme, in pace, collaborando per costruire un sistema più democratico di convivenza pluralista. Le religioni sono motivo d’incontro e non di scontro.
Quindi, secondo lei, in Medio Oriente dovrebbe essere impossibile, ancor più che altrove, commettere violenze usando il nome di Dio.
Il Medio Oriente resta la culla delle civiltà e delle religioni dove tutti abbiamo davanti un’unica strada: convivere pacificamente e lavorare insieme per il bene della nostra gente. La religione non può mai essere violenza.
Eppure ciò che sta avvenendo nella regione è ben lontano da prospettive di convivenza pacifica. Lei è di origine siriana, come vede la situazione nella Siria di oggi?
Con grande timore. Un timore purtroppo realistico, guardando anche all’esperienza irachena. La necessità di trovare presto soluzioni che aprano la strada al dialogo e a riforme di libertà e giustizia non è un’idea solo della minoranza cristiana, ma di tutti i credenti e degli uomini di buona volontà. Le violenze devono cessare e le parti in causa devono trovare il coraggio di sedersi intorno a un tavolo di pace per ricercare insieme le soluzioni giuste per tutti, nell’interesse della popolazione che chiede un futuro di pace. Si aggiunga anche la questione terribile dei profughi. In Libano ne arrivano tanti di cristiani in fuga: è sempre più complicato accoglierli e garantire loro una vita dignitosa.
Ma cosa sta accadendo in Siria?
Duole confessarlo, in Siria lo scontro non è soltanto una questione politica ma tocca anche le diverse confessioni religiose. Una constatazione che fa male perché quella è una terra che ha visto fiorire una cultura importante, antica, improntata all’accoglienza e alla tolleranza. I cristiani oggi sono una minoranza esigua e più che mai vulnerabile. Il messaggio che portano alla società, anche solo con la loro presenza, va infatti in senso contrario ai progetti radicali che invece non tengono per niente conto del valore della persona. Ancora una volta la questione di fondo è il riconoscimento e il rispetto dei diritti umani. Ai cristiani, invece, vengono sistematicamente negati i diritti più comuni.
Benedetto XVI sta per arrivare in Libano mentre tutto intorno divampano focolai di violenza. Cosa si aspetta da questa visita?
È una visita che potrebbe aprire scenari nuovi, ora impensabili, e suscitare speranze di pace e di riconciliazione per l’intero Medio Oriente. Ne sono più che convinto. Così non è abuso, non è un’esagerazione, usare l’aggettivo «storico» per questo tanto atteso pellegrinaggio. Il Papa visiterà il Libano, ma è certo che il suo viaggio riguarderà l’intera regione. Il suo sguardo abbraccerà tutti i popoli. Ecco che, in questa prospettiva, l’attesa principale confluisce in una grande speranza di pace. Sì, Benedetto XVI viene innanzitutto come messaggero di pace. Porta a tutti una parola di riconciliazione per aiutarci a costruire relazioni di convivenza che siano sul serio rispettose dei diritti delle persone, delle minoranze. I diritti umani devono essere garantiti a tutti.
Potrebbe dunque contribuire a un progetto per un nuovo Libano e per rilanciare prospettive di pace per l’intero Medio Oriente.
Sì, ne abbiamo urgente bisogno. La chiave di tutto è comprendere finalmente che una convivenza giusta dev’essere fondata sul rispetto per l’altro, creato a immagine e somiglianza dell’unico Dio. Noi cristiani, innanzitutto, aspettiamo dal Papa una parola di incoraggiamento: attendiamo indicazioni pratiche per provare a costruire relazioni migliori non solo tra noi, appartenenti ai diversi riti e confessioni cristiane, ma anche con il grande oceano musulmano. Nell’enciclica Caritas in veritate, al numero 56, il Papa afferma che «nel laicismo e nel fondamentalismo si perde la possibilità di un dialogo fecondo e di una proficua collaborazione tra la ragione e la fede religiosa». E qui si torna anche al discorso che verità e giustizia non possono essere mai separate. È una logica umana ancor prima che religiosa. Del resto basta anche richiamarsi alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, alla Carta delle Nazioni Unite.
Ma secondo lei il mondo musulmano ascolterà il Papa?
Credo di sì. Posso testimoniare che i leader islamici sono d’accordo nell’impegno di accogliere il Papa con il rispetto che si deve al capo della Chiesa cattolica. Sì, sono convinto che il Pontefice sarà ascoltato. E sono anche sicuro che i leader musulmani più illuminati si aspettino da Benedetto XVI un contributo che dia sostegno alle forze democratiche e pluralistiche che lavorano per una vera democrazia e perché tutti vedano riconosciuti i propri più elementari diritti.
E quale contributo pratico può dare la minoranza cristiana al processo di pace in Medio Oriente?
La nostra testimonianza di cristiani è, per forza di cose, piccola ma comunque importante. Chiaro che la visita del Papa è un passo di portata storica proprio perché il suo messaggio potrà raggiungere tutti. A mio parere, di forte impatto sarà l’Esortazione Apostolica post-sinodale che Benedetto XVI ci consegnerà in Libano. Sarà un segno concreto dell’attenzione della Chiesa per i veri problemi del Medio Oriente, per le questioni irrisolte, per le speranze e le attese concrete della gente. Non è un discorso che riguarda solo i cristiani. È certo, però, che noi cristiani dalla visita del Pontefice e dall’Esortazione Apostolica dobbiamo ripartire con ancora più slancio per dare il nostro contributo, aperto a tutti. Una missione che possiamo portare avanti solo partendo da un rinnovamento spirituale interiore, da un’esperienza di conversione e di approfondimento della nostra fede. In una parola, la nostra speranza deve divenire lavoro per la realizzazione del piano divino di salvezza per tutti.
Tornando al duplice significato della parola haqq, con quale spirito oggi la pronunciano i cristiani mediorientali?
Cercando di non perdere mai la speranza, di non cedere alla tentazione dello scoraggiamento, di credere sempre e comunque nella verità e nella giustizia anche quando i nostri progetti sembrano umanamente irrealizzabili. In particolare negli ultimi quattordici secoli i cristiani, divenuti minoranza, sono stati duramente provati nella loro testimonianza di fede, fino al martirio. Però restiamo fedeli all’insegnamento del Signore che ha offerto la salvezza a tutti, anche a coloro che si oppongono al suo messaggio d’amore universale. Così anche oggi la nostra unica strada è continuare a vivere, coraggiosamente, il messaggio del Signore e proclamare senza alcun timore la verità nella vera carità. Serve tanta, tanta speranza.
È speranza la parola chiave?
Noi cristiani che viviamo nella tormentata regione mediorientale abbiamo diritto a sperare. E la fede è inseparabile dalla speranza. È il Signore stesso a rassicurarci: «Non temere, piccolo gregge». Non dobbiamo aver paura di annunciare Colui che ha detto di sé: «Io sono la via, la verità e la vita». È proprio seguendo Cristo che possiamo testimoniare come solo la verità nella giustizia ci renderà liberi.
(©L'Osservatore Romano 7 settembre 2012)
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