giovedì 19 luglio 2012
È in libreria il volume "Le orecchie del Vaticano" di Bruno Bartoloni. Raccolti in un libro decenni di storie pubbliche e riservate accadute all'ombra del Cupolone
Raccolti in un libro decenni di storie pubbliche e riservate accadute all'ombra del Cupolone
È in libreria il volume Le orecchie del Vaticano (Firenze, Mauro Pagliai Editore, 2012, pagine 252, euro 18). Ne pubblichiamo alcuni stralci.
di Bruno Bartoloni
Per una singolare circostanza, proprio in quegli anni bui della seconda guerra mondiale, mentre le tombe di soldati, civili, ebrei, zingari, omosessuali si moltiplicavano a milioni, si tornò a scavare là dove un altro ebreo convertito, San Pietro, era stato sepolto diciannove secoli prima, nel 67, dopo aver subito il martirio della croce a testa in giù, in assenza di Nerone che si trovava in viaggio di piacere in Grecia.
Proprio una morte fu la singolare circostanza che dette il via alle ricerche: la morte di Pio XI il 10 febbraio del 1939. Prima di quel fatidico anno che segnò l'inizio della guerra, sotto la basilica si era andati a guardare poco e male. Nessun pontefice aveva mai permesso di fare ricerche precise, anche perché una tradizione ultra millenaria, testimoniata da documenti misteriosi e apocalittici, minacciava le più gravi sciagure per chi avesse turbato la pace del sepolcro di Pietro. Agli inizi del XVI secolo, nell'eseguire le fondazioni per una delle quattro colonne tortili della Confessione di Gian Lorenzo Bernini, era venuto alla luce un sepolcro. Vi era stata trovata, fra l'altro, una stupenda statua di bronzo che il cardinale Maffeo Barberini si era fatto trasferire in bella vista nel suo palazzo di via Quattro Fontane nel cuore di Roma. Sul sarcofago del suo sepolcro, un certo Flavio Agricola, liberto bon vivant della nobile famiglia dei Flavi, aveva fatto scolpire alcuni versi che invitavano alle libagioni e all'amore. I prelati del tempo, inorriditi e scandalizzati, almeno a parole, avevano subito fatto scalpellare il marmo e sotterrato ogni cosa.
Insomma ogni tanto qualcuno ci aveva messo il naso ma sempre di corsa e in modo dilettantesco. Il primo che andò a guardare un po' più sul serio fu nella metà del XIX secolo il pioniere dell'archeologia sacra, Giovan Battista de Rossi, il geniale ricercatore che scoprì le catacombe di San Callisto. Quando Pio IX gli chiese se aveva trovato la tomba di Pietro, gli rispose: «Sono tutti sogni, Padre Santo, tutti sogni!».
Ci volle dunque il testamento di Pio XI, il quale chiese di essere sepolto nelle Grotte Vaticane in una zona che aveva indicato al canonico tedesco Ludovico Kaas, segretario della Veneranda Fabbrica di San Pietro, l'organismo che da sempre presiede agli interminabili e mai finiti lavori nella basilica. A Roma si dice «come la Fabbrica di San Pietro» quando si parla di un'impresa che non finisce mai.
Fu ai primi colpi di piccone che i «sampietrini», gli operai della basilica, si accorsero di abbattere un muro vuoto. Da quel momento inizia la storia della tomba di Pietro, la cui ricerca coincide con gli anni più drammatici del XX secolo. Una storia lunga e polemica che mio padre seguì fin dal nascere lasciando a me il compito di vederne la fine, salvo nuove puntate.
Fu nel maggio del 1942 che Pio XII annunciò che nel corso degli scavi sotto la basilica vaticana era stato trovato un monumento che poteva essere identificato con la tomba di San Pietro. Papa Pacelli ne dette poi la conferma solenne nel 1950, in occasione dell'Anno Santo.
Nonostante la guerra, l'annuncio del 1942 sollevò molte polemiche, soprattutto fra gli storici protestanti. Insieme al loro collega più categorico, il francese Charles Guignebert, sostenevano che il martirio di San Pietro a Roma era un avvenimento leggendario e che lo stesso san Paolo nella sua lettera ai Romani non accenna mai alla presenza di Pietro nella capitale dell'impero.
Gli scavi durati dieci anni misero fine a ogni dubbio. Furono lavori difficili e delicati, perché per non correre il rischio tutt'altro che teorico di far crollare la basilica fu addirittura necessario fare delle iniezioni di cemento armato sotto i pilastri di sostegno, che gli architetti del Rinascimento avevano appoggiato su terra compressa ma senza raggiungere una profondità sufficiente. Sotto uno dei quattro pilastri, quello che corrisponde alla Loggia della Veronica, furono messi in opera in quei mesi del 1942 ben quattromila mattoni. La cupola, secondo calcoli eseguiti sotto Benedetto XIV dal gesuita slavo Boscovich e dai francescani francesi Leleur e Jacquier, pesa cinquantasei milioni duecentoottomilaottocentotrentasette chili e quattrocentosessanta grammi e cominciò a far temere per la sua stabilità fin dall'anno 1636 a causa di una crepa.
Per dieci anni monsignor Kaas, il gesuita archeologo tedesco Engelbert Kirschbaum e il suo confratello italiano, Antonio Ferrua, insieme con un gruppo di tecnici e di sampietrini avanzarono centimetro per centimetro a dieci metri di profondità con i piedi nell'acqua.
Scoprirono poco a poco i resti di una gigantesca città cimiteriale appoggiata al circo di Nerone.
Ritrovarono all'ingresso di un sepolcreto, sullo stipite della porta, il testamento marmoreo di un certo Popilio Heracle il quale imponeva ai suoi eredi di costruirgli un monumento in Vaticano ad Circum.
Non mancarono i momenti drammatici. Nel 1949, quando si era ormai giunti al chiarimento di quasi tutti i misteri sulla tomba del primo apostolo, un vero fiume d'acqua e fango alto ottanta centimetri minacciò di ricoprire tutti gli scavi evocando la maledizione millenaria che doveva colpire chi la profanasse.
Si scoprirono rapidamente i colpevoli del disastro. Un anno prima, in vista dell'Anno Santo del 1950, erano cominciati i lavori per la costruzione di un enorme palazzo destinato all'Azione cattolica italiana agli inizi di via della Conciliazione, la grande arteria che porta da Castel Sant'Angelo a piazza San Pietro e che, ricordo bene, fu completata dopo la distruzione della «spina di Borgo» proprio per quell'Anno Santo. Scavando per gettare le fondamenta, i tecnici trovarono un vero e proprio stagno. Del resto tutti i «borghigiani» sanno bene che un fiume sotterraneo passa sotto le loro cantine. Invece di deviare le acque verso il Tevere distante poche decine di metri, respinsero con tonnellate di sabbia le acque che defluirono verso San Pietro.
Gli archeologi vaticani lanciarono l'allarme con un rapporto rimasto ancor oggi segreto e del quale mio padre riuscì ad avere notizia. Il rapporto era stato inviato a Pio XII dall'archeologo Enrico Josi, collaboratore di Kaas e Kirschbaum.
Papa Pacelli si rivolse in modo riservato alle autorità italiane le quali, sempre con molta discrezione, crearono attorno alla zona un nuovo regime di distribuzione delle acque.
Alla fine si riuscì a salvare il famoso Trofeo di Gaio, quel presbitero che nel 200 aveva scritto in una lettera a un certo Proclo che avrebbe potuto mostrare i «trofei» cioè le tombe-monumento dove erano sepolti Pietro e Paolo, in Vaticano e a Roma sulla strada per Ostia, dove sorge l'attuale basilica di San Paolo (ego autem Apostolorum tropaea possum ostendere... ).
Così Pio XII dette l'annuncio della scoperta confermando la certezza storica di aver ritrovato i resti del Trofeo di Gaio.
In quel periodo storici e archeologi si dettero da fare per rispondere ai non pochi dubbi. Ad esempio, perché l'imperatore Costantino non trasferì il corpo di Pietro per dedicargli un tempio in un luogo più stabile? La risposta fu che all'epoca costantiniana una legge severissima, rispettata da tutti, compresi i cristiani, proibiva la traslazione dei corpi e la distruzione o rimozione dei cimiteri. Per di più per i cristiani era inconcepibile costruire una chiesa in onore di un martire se non sulla tomba stessa o, in casi rarissimi, sul luogo del martirio. Se ne trovò conferma in un canone di un posteriore concilio africano che diceva: «Un santuario in onore dei martiri non deve essere costruito se non dove si trova il suo corpo o le sue reliquie».
Altro mistero: nella basilica di San Sebastiano, sopra le catacombe sulla via Appia, diversi graffiti a conferma di un'antica tradizione testimoniano della presenza dei corpi di Pietro e di Paolo. C'è perfino la frase di uno sconosciuto fedele, che nel III secolo fa sapere di averci tenuto il refrigerium per i due apostoli. Il refrigerium era il banchetto funebre che si celebrava in onore dei defunti, un po' come avviene ancor oggi a Manila dove i parenti vanno la domenica a pranzare «insieme» ai loro defunti nelle casette-tomba perfettamente attrezzate.
La risposta più accreditata è che nel 258, in seguito al sequestro dei cimiteri ordinato durante le persecuzioni di Valeriano, le reliquie furono trasferite dal Vaticano alle catacombe di San Sebastiano e riportate al loro posto pochi mesi dopo quando Gallieno restituì i sepolcreti.
Tutto questo movimento di reliquie non può naturalmente non sol-levare dubbi e alimentare i misteri. Non siamo ancora ai tempi bui del medioevo quando principi, duchi e signori invitavano a cena vescovi e abati mitrati e alla fine del pasto si facevano portare un bel vassoio pieno di sante reliquie, tibie, capelli, prepuzi, dita, e così via che poi distribuivano generosamente ai prelati.
Qualcosa deve essere successo se, secondo la tradizione, le teste di san Pietro e di san Paolo continuano a essere venerate nella basilica di San Giovanni in Laterano dove sono custodite in un ciborio gotico al centro dell'altare maggiore. A compensare l'assenza della testa del primo apostolo, nella basilica di San Pietro si venera invece la testa di suo fratello sant'Andrea. Fu donata nel XV secolo a Papa Pio ii dal principe Tommaso Paleologo, fratello dell'ultimo imperatore dei greci. Papa Piccolomini, piangendo, dopo averla baciata, pose la testa di Andrea sulla tomba del fratello Pietro celebrando una messa per le commoventi retrouvailles dopo diciotto secoli. Un ricongiungimento che coinvolgeva una famiglia allargata perché poco distante c'erano anche i resti della figlia di san Pietro, e quindi nipote di sant'Andrea, Petronilla, alla quale il padre aveva lasciato scritto sulla prima tomba nel cimitero di Domitilla filiae dulcissimae, «alla mia dolcissima figlia». Non tutti forse ricordano che la Francia è la fille ainée de l'Eglise grazie a Petronilla, divenuta patrona della Francia ai tempi di Pipino il Breve e Papa Stefano ii. Fu proprio per decorare la cappella di Santa Petronilla che il cardinale francese Villiers de la Groslaye, ambasciatore di Carlo VIII, donò alla basilica vaticana la Pietà di Michelangelo.
Dopo aver scavato sempre più entusiasti, gli archeologi vaticani erano giunti all'edicola funeraria costruita verso il 150 in onore di Pietro. L'edicola era appoggiata a un muro, detto poi il «muro rosso» dal colore del suo intonaco.
A questo punto uno strano «pasticcio» torna a proporre nuovi misteri. Nel muro accanto all'edicola identificabile con il famoso Trofeo di Gaio, si scopre un ripostiglio con dentro una cassetta marmorea priva di coperchio e quindi considerata di scarsa importanza. C'era tra l'altro una monetina di Limoges che fu regalata al governatore del Vaticano Camillo Serafini. Fine della storia con l'annuncio di Pio XII del 1950.
E invece no. Tre anni dopo una studiosa, Margherita Guarducci, docente di epigrafia e antichità greche all'università di Roma, va a metterci il naso. E riesce a decifrare fra i graffiti sul muro rosso uno che dice in greco Petros enì e cioè «Pietro è qui».
Comincia a indagare da vero Sherlock Holmes in gonnella e ritrova Giovanni Segoni, il sampietrino che aveva materialmente condotto gli scavi. Dopo molte insistenze, Giovanni Segoni si ricorda che monsignor Kaas gli aveva affidato i resti trovati nella cassetta e che lui li aveva messi in una scatola di scarpe lasciata in un ripostiglio per le scope in un angolo della Fabbrica di San Pietro. Margherita Guarducci riesce a recuperare la scatola con i resti. Dalle prime analisi risultò che c'erano resti di ossa umane appartenenti almeno a un individuo di sesso maschile fra i sessanta e i settant'anni, di costituzione robusta.
Se sulla tomba di Pietro non sembrano esserci proprio dubbi, sulle sue reliquie i misteri sono molti. Tra questi, perfino le conclusioni di un ordinario di anatomia siciliano, Dino Correnti, che ebbe modo di analizzarle alla fine degli anni Cinquanta. Ha sostenuto che si trattava dei resti di due uomini perché ci trovò tracce di arti doppi.
C'erano i frammenti di un tessuto in porpora e oro, i resti di un gallo della stessa epoca (che poteva essere un animale simbolico) ma anche i resti di un sorcio di un paio di secoli dopo e che purtroppo c'è da pensare che non sia stato troppo rispettoso con le sacre reliquie.
La Guarducci confermò nel 1959 alla stampa le sue scoperte con grande ricchezza di dettagli. Fu subito smentita seccamente dalla commissione Kaas, Kirschbaum, Ferrua. Dieci anni dopo, Paolo VI le dette ascolto e annunciò il 26 giugno del 1968, ancora una volta in un anno pieno di tensioni, che «le reliquie di San Pietro sono state identificate in modo che possiamo ritenere convincente». Margherita Guarducci, fiera della sua rivincita a tanti anni di distanza nei confronti di padre Ferrua, l'unico sopravvissuto dei primi ricercatori, poté rilanciare una nuova edizione delle sue appassionanti ricerche.
La storia non finì a quel punto, a dispetto della scomparsa di quasi tutti i protagonisti. Il litigio storico-archeologico si è trascinato almeno fino al 1995. La Guarducci a insistere sulla sua scoperta e Ferrua a smentirla. Pur ammettendo che potrebbe esserci stata qualche disattenzione sulle ossa umane trovate nella nicchia e poi scomparse, padre Ferrua scriveva appunto nel 1995 che Paolo VI aveva fatto chiudere nove piccoli frammenti delle ossa trovate dalla Guarducci in un artistico reliquiario che teneva esposto nella sua cappella privata con la scritta B(eati) Petri Ap(ostoli) esse putantur.
«In linguaggio corrente -- commentava il gesuita archeologo sulla «Civiltà Cattolica» -- vorrebbe dire: È un'opinione; altri ci credono, io no». Giovanni Paolo II non è mai tornato sulla faccenda. E finora neppure Benedetto XVI.
(©L'Osservatore Romano 19 luglio 2012)
La Sala Stampa e le orecchie dei muri
«In Vaticano i muri hanno orecchie» racconta Bartoloni in uno dei capitoli del suo libro. Per un giornalista di razza come lui è un tema chiave, che trova spiegazione in una motivazione “architettonica”. I grandi ambienti affrescati dei palazzi apostolici furono, agli inizi del XX secolo, per motivi pratici razionalizzati con divisori di compensato resi dignitosi da parati di damasco rosso. «Con sorpresa degli uscieri della Segreteria -- scrive Bartoloni -- dopo una lunga attesa nelle anticamere, i giornalisti e i diplomatici che avevano chiesto di essere ricevuti dal sostituto o dai suoi collaboratori rinunciavano spesso al colloquio. Il motivo non era la scarsa pazienza ma le sottili pareti di compensato che permettevano di ascoltare tutto quello che si diceva negli uffici». La cosa poco a poco si venne a sapere e così, «scoperta l'astuzia, un prelato, monsignor Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI, figlio di un giornalista cattolico bresciano, spostò la Sala Stampa dal cortile di San Damaso in alcuni locali della periferia vaticana, vicini all'“Osservatore Romano”. La motivazione ufficiale fu la creazione di un “servizio stampa” dipendente dal giornale vaticano e l'offerta di “uno spazio più confortevole per i giornalisti”».
(©L'Osservatore Romano 19 luglio 2012)
Vedi anche:
ELENCO DEI LIBRI DI JOSEPH RATZINGER-BENEDETTO XVI, RACCOLTE DI PENSIERI E COMMENTI AI TESTI
ELENCO DEI LIBRI SU PAPA BENEDETTO XVI (BIOGRAFIE ED ANALISI)
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3 commenti:
OT
Fr. Z avverte i lefebviani che sarebbe un errore pensare che la pazienza di Papa Benedetto sia infinita e li invita a sottomettersi al Vicario di Cristo.
http://wdtprs.com/blog/2012/07/of-anger-management-benedict-xvi-and-the-sspx-wherein-fr-z-imagines-dire-things/
Alessia
L'articolo di Bartoloni sull'Osservatore non dice il vero circa le reliquie di Pietro.Esse furon trovate miste con fili di porpora(tessuto imperiale in cui quale erano state avvolte sotto Costantino) e doro.
Fatte analizzare dall'esimio Prof. Correnti della Sapienza di Roma conferò trattarsi di uomo di media statura morto intorno ai 60-70 anni.
Paolo VI era convinto dell'autenticità delle reliquie e lo disse più volte anche alla Guarducci.
Negò pervicacemente l'autenticità il Ferrua gesuita inserito nella commisssione all'ultimo momento per via della morte di Mons. Kaas.
Ferrua devastò la tomba di Pietro, archeologo mediocre, seguiva i metodi ottocenteschi dello sterro senza analizzare gli strati.
Pio XII rivelò alla Guarducci in confidenza ..."quello che mi sta facendo passare lei non può immaginarlo!"
Nella Compagnia,un tempo benemerita,la ribellione iniziò ben prima del Concilio!
Dispiace comunque che per un tale scavo il Pastore Angelico non abbia chiamato il più grande degli archeologi allora viventi Ranuccio Bianchi Bandinelli.
Troppo buono Bartoloni.
In realtà il maldestro tentativo di qualcuno in vaticano di far " apparire " come per un miracolo le ossa dell'apostolo Pietro, oggi appare in tutta la sua evidenzanza. La Guarducci era sicuramente (speriamo) in buona fede.
In realtà è la mancanza assoluta di qualsiasi documento che certifichi il momentaneo trasferimento delle ossa dell'apostolo dal 350 ai giorni nostri che certifica il fatto che sotto l'altare della confessione non vi siano mai state.
Se dovessimo prendere per buone le notizie che ci ha riferito Eusebio di Cesarea del " mitico " trofeo di Gaio, per la stessa ragione avremmo dovuto trovare il famoso sarcofago di bronzo e la croce d'oro di san. Elena, come lo stesso Eusebio ci riferisce.
Da una cronaca del XVI sec. si legge:
“Quando l'architetto Giacomo della Porta sollevava gli strati del pavimento intorno al vecchio altare per sovrapporvi il nuovo vi scopri la finestra che corrispondeva alla sacra urna. Calatovi dentro il lume ravvisò la croce d'oro sovrappostavi da Costantino e da S. Elena sua madre. Fece tosto di ogni cosa relazione al Papa, che nel 1594 era Clemente VIII, il quale in compagnia dei cardinali Bellarmino e Antoniano, si portò sulla faccia del luogo e trovò quanto aveva riferito l'architetto. Il pontefice non volle aprire né il sepolcro, né l'urna, nemmeno acconsentì che alcuno si avvicinasse, anzi ordinò che l'apertura fosse chiusa con cementi. Da allora in poi non fu mai più né aperta la tomba, né alcuno si è più avvicinato a quelle reliquie venerande”.
Come mai negli scavi avvenuti pochi anni dopo per le colonne del Bernini non fu trovato nulla?
Come mai il supposto " Trofeo di Gaio " è un misere rudere senza nessuna iscrizione?
Troppo buono Bartoloni nel dare per certo il ritrovamento della tomba.
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