giovedì 12 luglio 2012

A colloquio con monsignor Jean-Marie Mupendawatu (Ponzi)


A colloquio con monsignor Jean-Marie Mupendawatu


La sanità negata


di Mario Ponzi


Oltre un miliardo e duecentomila persone nel mondo, in gran parte donne e bambini, non hanno alcun accesso all'assistenza sanitaria. «Ciò dimostra -- dice monsignor Jean-Marie Mupendawatu, segretario del Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari -- che il diritto alla salute, nonostante sia stato sancito nella Dichiarazione universale dei diritti umani, è praticamente rimasto lettera morta». E la situazione, malgrado gli sforzi compiuti da diverse istituzioni, non sembra destinata a migliorare nel breve periodo. I motivi sono molteplici: dalla povertà all'indigenza più assoluta; dalla mentalità mercantilistica che domina nel circuito sanitario a una disumana concezione della salute come business da sfruttare; dall'insufficienza dell'intervento solidale degli organismi statali e internazionali all'incapacità, o alla mancata volontà, di sviluppare una politica sanitaria senza frontiere. L'azione della Chiesa in quest'area, dice monsignor Mupendawatu nell'intervista rilasciata al nostro giornale, si fa sempre più vigorosa ma deve confrontarsi «con un percorso a ostacoli che sconcerta e dà molto da riflettere».


Ostacoli di che genere?


Non voglio usare parole forti. Dunque mi limito a quanto detto recentemente dal presidente del nostro dicastero, l'arcivescovo Zimowski, all'assemblea generale dell'Organizzazione mondiale della sanità (Oms), allorché ha ricordato le potenzialità messe in campo dalla Chiesa cattolica con oltre 120.000 istituzioni sociali e sanitarie presenti nel mondo. Essa costituisce, in molti Paesi economicamente svantaggiati, un partner chiave dello Stato nella fornitura di servizi sanitari. Tutte queste istituzioni operano infatti anche in aree remote e in favore delle fasce più povere della popolazione, permettendo loro di accedere a quelle prestazioni che altrimenti sarebbero fuori della loro portata. È indubbiamente un grande impegno, che consente di contribuire all'accesso universale alle cure, e meriterebbe il riconoscimento e il sostegno tanto dei Governi quanto della comunità internazionale, senza che ciò, tuttavia, comporti l'obbligo di partecipare ad azioni moralmente inaccettabili.


A cosa si riferisce?


Le faccio un esempio, quello del mio continente, l'Africa. Le culture africane sono conosciute per l'amore e la promozione della vita. Purtroppo oggi assistiamo alla diffusione di una mentalità contraria alla vita, spesso promossa e imposta da organismi internazionali attraverso l'approvazione di leggi anti-vita, come la legalizzazione dell'aborto, introdotta dal Protocollo di Maputo. Si nota una mancanza di chiarezza etica nel corso degli incontri internazionali, addirittura un linguaggio confuso che veicola valori contrari alla morale cattolica. Il Papa stesso, trattando più volte di questo argomento, si è riferito a questioni come quelle connesse con la cosiddetta “salute riproduttiva”, con il ricorso a tecniche artificiali di procreazione comportanti distruzione di embrioni, o con l'eutanasia legalizzata. In alcuni Stati africani si sta procedendo a una revisione costituzionale e ci sono tante pressioni da parte di Paesi esterni e agenzie internazionali per la modifica di norme costituzionali in favore e a protezione della vita in ogni istante. Ecco, questi per esempio sono ostacoli che sembrano insormontabili.


E in queste situazioni quali strategie adottare?


Non si tratta di strategie. Si tratta piuttosto di evangelizzazione. Bisogna formare la gente. Tanto per restare in Africa, dovunque c'è una missione, subito dopo la costruzione di una cappella o di una chiesa si può essere certi che seguirà, prima o poi, l'edificazione di un dispensario e di una scuola. Di conseguenza, è importante puntare sulla formazione, anche di quanti assisteranno poi i malati. È necessario che siano guidati da una visione integralmente umana della malattia e che sappiano attuare, di conseguenza, un approccio compiutamente umano al malato che soffre o alla donna che sta per dare alla luce una vita nuova.


Secondo lei è sufficiente l'azione della Chiesa?


Sicuramente è di fondamentale importanza. Ma chiaramente non basta. Ecco da dove nasce la costante preoccupazione di Benedetto XVI per i molti milioni di persone che non hanno accesso ai servizi sanitari. Egli chiede proprio «un maggiore impegno a tutti i livelli affinché il diritto alla salute sia reso effettivo, favorendo per tutti gli uomini l'accesso alle cure sanitarie primarie». Ciò evidenzia la necessità di una solidarietà globale, in cui i Paesi ad alto reddito non solo promettano, ma rispettino effettivamente i loro impegni in materia di aiuti allo sviluppo. Il progresso verso la copertura universale non può essere unicamente uno sforzo dell'apparato statale. Esso richiede il sostegno della società civile e delle diverse realtà aggregative e comunitarie, il cui contributo alla fornitura dei servizi sanitari è fondamentale. Al contempo, gli Stati devono, come suggerisce il Papa, «generosamente riconoscere e sostenere, nella linea del principio di sussidiarietà, le iniziative che sorgono dalle diverse forze sociali e uniscono spontaneità e vicinanza agli uomini bisognosi di aiuto». Il Pontefice va oltre e ricorda che «anche nel campo della salute, parte integrante dell'esistenza di ciascuno e del bene comune, è importante instaurare una vera giustizia distributiva che garantisca a tutti, sulla base dei bisogni oggettivi, cure adeguate». Ne consegue che il mondo della salute non può sottrarsi alle regole morali che devono governarlo affinché non diventi disumano. Del resto esiste la risoluzione vh 56.25 dell'Oms a proposito della contrattualizzazione per il miglioramento della performance dei sistemi sanitari nazionali, adottata dall'assemblea mondiale della salute nella seduta del 2003, che invita e incoraggia i Governi a riconoscere e a sostenere le istituzioni non pubbliche che operano in regime di non profit o di privato sociale.


A proposito di umanizzazione, proprio quanti operano nella sanità sono chiamati a esserne i principali protagonisti.


Certamente, ma non bisogna pensare solo ai medici. Recentemente ho partecipato a Lusaka al quinto congresso di infermiere cattoliche della regione africana di lingua inglese dell'International catholic committee of nurses and medico-social assistants (Ciciams). Il tema di questo incontro, era: «Infermiere cattoliche: strumenti di guarigione». Ho voluto ricordare loro che quella infermieristica è nota per essere una professione altruistica e premurosa. Rimanere fedele a questa visione può rivelarsi particolarmente difficoltoso con la tecnologia altamente sviluppata di oggi, spesso criticata come disumana e senza cuore. Di qui, l'appello urgente all'umanizzazione della moderna assistenza sanitaria. È quindi molto importante ricordare che la persona umana deve essere sempre al centro dell'attenzione, della missione e del servizio delle infermiere, nel pieno rispetto della dignità e tenendo conto delle varie dimensioni della salute di una persona: fisica, psicologica, sociale e spirituale. La tecnologia, che porta con sé molte possibilità che facilitano il servizio, dovrebbe rimanere solo uno strumento per aiutare a migliorare il servizio per altri esseri umani, i fratelli e le sorelle sofferenti. Nelle strutture sanitarie, in particolare, la Chiesa trova l'incontro con l'uomo sulla via della sofferenza. E in un incontro simile l'uomo diventa «la via della Chiesa», una delle vie più importanti come si legge nella Salvifici doloris.


In presenza di decisioni eticamente discutibili, quale alternativa può esistere per l'infermiere rispetto al dovere di assecondare il medico?


Effettivamente le infermiere potrebbero trovarsi in una situazione in cui dover agire come “avvocato” del paziente, poste di fronte a una scelta tra questi, il medico o anche l'amministratore. La difesa dei diritti del paziente è un meccanismo utile per la condivisione delle responsabilità all'interno dell'équipe medica, ma troppo spesso è percepita in modo negativo, cioè come una minaccia o una critica implicita alle cure mediche. I medici, invece, dovrebbero ascoltare i loro infermieri, che non di rado hanno una visione più ampia delle preoccupazioni del paziente. Purtroppo, in alcuni Paesi, le infermiere hanno dovuto lasciare i loro luoghi di lavoro o si sono viste negare l'occupazione solo perché hanno fatto “obiezione di coscienza”, rifiutandosi di partecipare a programmi per l'aborto. Come individui, le infermiere cattoliche si aggrappano ai valori cristiani nella difesa della santità e della dignità della vita umana, e hanno bisogno pertanto di essere sostenute da legislatori cristiani, dalla comunità cristiana in generale e dalle associazioni di infermieri cattolici, affinché la loro voce possa essere ascoltata e i loro diritti rispettati.


Qual è oggi la situazione della sanità in Africa?


Gli indicatori di salute per l'Africa non forniscono un quadro incoraggiante della situazione sanitaria, soprattutto nell'Africa sub-sahariana. Mentre da un lato la mortalità infantile e materna è ancora alta, dall'altro milioni di vite sono spazzate via ogni anno da malattie come la malaria, l'hiv/aids, la tubercolosi e le malattie tropicali trascurate. La situazione è aggravata dalla povertà, dalla mancanza di risorse locali e di personale sanitario, da conflitti interni e regionali, mentre gli aiuti esterni sono condizionati dall'accettazione di politiche contrarie alla vita quali l'aborto. Inoltre alcune aziende farmaceutiche non sono interessate a produrre farmaci per curare le malattie che colpiscono la povera gente. Ciò comporta il deterioramento delle strutture e la carenza cronica di accesso ai servizi sanitari. Questo si ripercuote su tutto il sistema e per poter lavorare in una tale situazione di estremo bisogno è necessario amare la propria professione e avere una fede forte, nonché essere motivati dall'amore per le persone. La professione sanitaria deve qui essere vissuta, più che in altri contesti, proprio come una vocazione e non solo come un dovere.


E della situazione in cui versano le istituzioni sanitarie gestite dalla Chiesa nel mondo, e in Italia in particolare, cosa pensa?


Per prima cosa mi viene in mente quanto scritto dal Papa proprio nell'Africae munus, il documento post-sinodale dell'assemblea speciale per l'Africa del Sinodo dei vescovi. «Occorre -- ricordò -- che le istituzioni sanitarie siano amministrate secondo le regole etiche della Chiesa, assicurando i servizi in conformità con il suo insegnamento ed esclusivamente a favore della vita. Esse non divengano una fonte d'arricchimento per i privati. La gestione dei fondi concessi deve avere di mira la trasparenza e servire soprattutto il bene del malato. Infine ogni istituzione sanitaria dovrà avere una cappella. La sua presenza ricorderà al personale (direzione, funzionari, medici e infermieri) e al malato che Dio è il solo Signore della vita e della morte». Certamente un discorso che va ben al di là dei confini africani. Tuttavia non si può generalizzare con il concetto senza tener conto del contesto nelle quali si trovano a operare le istituzioni sanitarie della Chiesa. Esse sono soprattutto un luogo di evangelizzazione, di nuova evangelizzazione. In esse la Chiesa compie un'azione umana e spirituale. Di questo si parlerà nel corso della XXVII conferenza internazionale organizzata dal nostro Pontificio Consiglio, che si svolgerà in Vaticano dal 15 al 17 novembre prossimo. Da tutto ciò nasce l'imperativo di una buona e oculata gestione e di una chiara ed esemplare testimonianza cristiana. Una testimonianza che sarà sicuramente rafforzata dalla presenza nelle strutture di una cappella. Per ciò che riguarda le problematiche economiche e finanziarie vissute in alcuni Paesi dalle strutture sanitarie gestite da enti e congregazioni religiose, spero che, negli amministratori statali, prevalgano equità e giustizia; soprattutto prevalga la coscienza di dover salvaguardare un patrimonio comune importante per tutta la comunità quale è quello delle opere sanitarie cattoliche.



(©L'Osservatore Romano 13 luglio 2012)

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