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martedì 30 ottobre 2012
Fedeltà radicale nell’amore per il presente. Concilio e modernità in un libro di Giuliano Zanchi (Scaraffia)
Concilio e modernità in un libro di Giuliano Zanchi
Fedeltà radicale nell’amore per il presente
Lucetta Scaraffia
La nostra è la prima civiltà «in cui l’essere umano cerca il modo di costruirsi con le sue stesse mani e alla luce della sua smisurata coscienza di sé», la prima epoca che ha rinunciato «a pensare a un fondamento delle cose». Tanto che l’atteggiamento di «sapiente e amorevole indagine del presente», che è stato il cuore dell’eredità conciliare, sembra divenuto impossibile, se non addirittura inutile. Ma il credente, come scrive con forza Giuliano Zanchi nel suo libro Prove tecniche di manutenzione umana. Sul futuro del cristianesimo (Vita e Pensiero), sa che per restare umano non deve separarsi dalla storia. Perché «è perdendo il senso della fraternità che si esce, nello stesso istante, dal perimetro della fede e dal vocabolario della speranza». Proprio con l’intenzione di servire la speranza, Zanchi esplora questo terreno, partendo da una riflessione sui tempi presenti, per arrivare a proposte concrete in vista di un nuovo radicamento cristiano.
Cominciando con il denunciare una crisi della ragione che, partita con l’ambizioso obiettivo di abbattere la frontiera impenetrabile delle verità metafisiche, si limita oggi a divenire strumento per razionalizzare, in modo apparentemente efficace, il funzionamento delle grandi strutture della vita. Tecnica, mercato e democrazia — basi della cultura postmoderna — procedono così con le caratteristiche di una rete avvolgente, chiedendo ai singoli di trasformare in scelta personale quella che invece è una necessità imposta dal sistema. Il segreto per mettere in atto questo meccanismo è la trasfigurazione di ogni bisogno in desiderio, così che possiamo dire con Bauman che «la nostra società dei consumi è forse l’unica società nella storia dell’umanità che promette la felicità nella vita terrena, cioè la felicità qui e ora». Apparteniamo, infatti, alla prima civiltà che prova a vivere senza l’immaginazione di un futuro.
Da questo nascono gravi problemi nella costruzione dell’identità, che — si predica — deve essere scelta liberamente per “essere se stessi”. Dimenticando che l’“essere se stessi” è il frutto di un dono all’interno di relazioni, più che il prodotto di un arbitrio fra scelte equivalenti. Ai cristiani Zanchi chiede di intervenire con amore per la storia di tutti, un amore che «assume anzitutto la forma dell’intelligenza necessaria a conoscere realmente il proprio mondo». Intelligenza trovata nel concilio, ma poi perduta poco dopo nella tempesta del Sessantotto, quando «l’istituzione ecclesiastica si trovava nuovamente in polemica con il mondo. La storia era già andata “oltre” quella modernità con la quale il cristianesimo pensava di essersi finalmente riconciliato».
Questa frattura con la storia è stata risolta, di fatto, con un patteggiamento individuale — come dimostra clamorosamente il caso della morale sessuale — lasciando così nella solitudine del singolo il faticoso lavoro di elaborazione antropologica tra la fede ricevuta e la propria cultura vitale. Ma non basta. Perché, se guardiamo alla storia della Chiesa, la vera santità riformatrice è nata solo «quando qualche discepolo del Regno, sentendosi frutto del proprio mondo, lo ha amato con fedeltà radicale». Dovremmo pertanto imparare ad amare radicalmente questo nostro tempo impegnato in «prove tecniche di manutenzione umana», che è anzitutto ristrutturazione fisiologica dell’autorappresentazione dell’essere umano.
Saremo così pronti a vivere l’esperienza decisiva di ripensare la lingua dell’annuncio cristiano. Non solo nello stile della comunicazione, ma in una rinnovata eloquenza che sappia riappropriarsi instancabilmente del senso di una rivelazione mai posseduta una volta per tutte. Per offrire segni credibili di speranza — scrive Zanchi — l’istituzione ecclesiastica deve quindi sapere dare prove autentiche «della dimestichezza ad attraversare con perfetta dignità umana anche gli sfuggenti sentieri dell’incertezza, della complessità, persino del dramma».
(©L'Osservatore Romano 31 ottobre 2012)
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