A colloquio con il rettore della Pontificia Università Lateranense su teoria e prassi dell'educazione
Ricominciamo da Zaccheo
di Silvia Guidi
«Oggi la cultura è così diffusa da essere quasi passata nell'atmosfera in cui un giovane respira. In lui vivono e si agitano idee filosofiche e poetiche, le ha assorbite con l'aria del suo ambiente, ma crede che siano di sua proprietà e perciò ne parla come se fossero sue. Dopo aver però restituito al suo tempo ciò che ne aveva ricevuto, si ritrova povero. È come una fonte dalla quale per un po' sgorga l'acqua che vi è stata versata e subito smette di colare non appena la riserva si esaurisce». Sono parole che descrivono, più o meno, la situazione attuale, ma risalgono a qualche secolo fa: Goethe le pronunciò il 15 aprile 1829 («era un mercoledì» precisa Raffaele Vacca nell'articolo Sulle conversazioni di Goethe in «Studium», n. 2, 2009). «In generale -- conclude il poeta -- non si impara nulla per semplice sentito dire e chi non si impegna di persona nella pratica di certe cose, le conosce solo superficialmente e a metà». Rem tene verba sequentur raccomandavano i retori latini ai loro allievi, abbi chiaro il concetto e le parole verranno da sole. Sembra facile ma non lo è: essere disponibili a farsi raggiungere dalla conoscenza di una cosa, mantenere un atteggiamento di apertura permanente verso quello che ci succede intorno non è scontato, è una conquista, soprattutto in un'epoca, la nostra, in cui «la fretta, frusta del potere» (Patricia Pagoto) ci stordisce di stimoli contraddittori fino ad anestetizzare le nostre percezioni, relegandoci nel limbo della reattività immediata e impedendoci di ascoltare le cose. Per recuperare la freschezza originale nel conoscere serve una disponibilità radicale a lasciarsi toccare, ferire se necessario, dalle circostanze e dagli incontri; è la sfida, ardua e scomoda, dell'educazione. Di teoria e prassi dell'educazione abbiamo parlato con monsignor Enrico dal Covolo, rettore della Pontificia Università Lateranense.
Quali sono le priorità irrinunciabili nel formare i formatori?
Il mondo in cui viviamo è caratterizzato da uno sfrenato pluralismo culturale. A volte cercare dei punti comuni sembra un'impresa impossibile. Ciò che i nostri Padri ci hanno consegnato è messo in discussione senza eccezioni e, non di rado, con un'aggressività, che mi pare ben sintetizzata da quell'espressione impiegata dal Papa riguardo a un «Occidente che odia se stesso». In tale cornice, gli obiettivi formativi sono obbligatori: bisogna ricuperare il significato della dignità umana, di ogni singolo uomo, superando i vari riduzionismi dell'umano che, da molte parti, fanno giungere il suono delle loro sirene; ricuperare il valore del dialogo, inteso come desiderio sincero di “ascolto dell'altro” (sia questi “l'Altro” con la a maiuscola; o siano pure “gli altri”, soprattutto i più poveri e i più bisognosi); ricuperare il valore contemplativo della vita ordinaria, ovvero la capacità di scoprire l'Assoluto in un approccio alla realtà capace di superare la tentazione imperante del nichilismo. In questa prospettiva l'Università Lateranense sta seguendo da un paio d'anni un articolato progetto formativo, centrato su quattro punti strategici: lo studio dell'emergenza educativa (eziologia, fenomenologia, terapia); la formazione dei formatori, come risposta appropriata dell'Università del Papa dinanzi alla medesima emergenza educativa; lo sviluppo della comunicazione, all'interno e all'esterno dell'Università; la promozione della pastorale universitaria, intesa globalmente come accompagnamento efficace, un vero e proprio orientamento, dei membri della comunità accademica nella loro formazione integrale, umana e cristiana.
Come è nata l'idea di Casa Zaccheo?
Con una battuta, potrei rispondere che l'idea ci è venuta dal Papa. In Germania, durante la visita apostolica dello scorso settembre, egli ha detto: «Siamo chiamati a cercare nuove vie dell'evangelizzazione. Una di queste vie potrebbe essere costituita dalle piccole comunità, dove si vivono amicizie, che sono approfondite nella frequente adorazione comunitaria di Dio. Qui ci sono persone che raccontano le loro piccole esperienze di fede nel posto di lavoro e nell'ambito della famiglia e dei conoscenti, testimoniando, in tal modo, una nuova vicinanza della Chiesa alla società». La Casa Zaccheo, situata in zona Balduina, ospiterà una dozzina di nostri studenti, e sarà caratterizzata da un generoso impegno di vita comunitaria e di discernimento vocazionale. Gli studenti saranno accompagnati da un giovane sacerdote rettore e da un'équipe di validi formatori.
La vita comunitaria ha un grande valore pedagogico, perché, in un certo senso, «costringe» alla concretezza nel cammino della vita cristiana, ma forse è l'elemento che fa più paura ai giovani, abituati a respirare un individualismo diffuso. Come reagiscono i suoi studenti a questa proposta?
I giovani mi appaiono come delle eccellenti macchine in corsa, che spesso però sono frenate da ostacoli che incontrano sul loro tragitto. Voglio dire che la sensibilità dei giovani di oggi nei confronti di relazioni autentiche e profonde è qualcosa di straordinario. Molte volte mi è capitato di sorprendermi e di commuovermi, osservando una generazione giovanile così disponibile all'incontro con l'altro. L'ho sperimentato in maniera eccezionale durante la Giornata mondiale di Madrid. Si tratta di un dono grandissimo, e di una responsabilità enorme, che la Provvidenza mette davanti a noi, più avanzati in età, e sempre tentati da forme più o meno accentuate di cinismo. Gli stessi giovani, però (come tutti noi, del resto) vivono in una cultura che continuamente li invita a primeggiare, ad apparire a ogni costo, a lasciarsi ammaliare dal successo e dal potere: tutte dinamiche che inducono a vedere l'altro come un inciampo da evitare, se non proprio da eliminare. È necessario aiutare i giovani a prendere consapevolezza di questa tensione interiore, che tutti viviamo, e a risolverla positivamente, all'interno della vita cristiana.
«Ma la fede può essere trasmessa?» scrive parlando di Abramo e del suo rapporto personale con Dio, quando non c'era ancora la Chiesa a sostenerlo nel suo dialogo con il Creatore.
In verità, il titolo proposto ai lavori dell'Assemblea sinodale del prossimo ottobre parla proprio della trasmissione della Fede cristiana. In varie occasioni mi è capitato di proporre questa domanda apparentemente provocatoria, eppure feconda: «Ma la fede può essere trasmessa?». Se la fede, come recita il Catechismo della Chiesa Cattolica, è un atto personale, questa decisione non può essere trasmessa. La fede di Abramo (tanto per fare un esempio illustre) è il suo personale atto di obbedienza alla Parola, e questo atto è solo suo. Può essere indicato come esempio, ma per essere trasmesso deve essere ripetuto da altri, che facciano propria la medesima obbedienza a Dio. Tuttavia, come sappiamo, non c'è solo questo aspetto soggettivo e personale della fede: c'è anche un aspetto oggettivo, fatto di contenuti (enunciati, riti, comportamenti), che sono oggetto, appunto, di insegnamento, e che quindi possono essere trasmessi. Alludo qui alla ben nota distinzione, di matrice agostiniana (cfr. De Trinitate 13, 2,5), tra fides quae creditur (la fede che è creduta, cioè l'aspetto oggettivo) e fides qua creditur (la fede con la quale si crede, cioè l'aspetto soggettivo dell'atto di fede). Tutto questo ci permette «di esprimere e di trasmettere la fede, di celebrarla in comunità, di assimilarla, e di viverne sempre più intensamente» (Catechismo, n. 170). Rimane il fatto che molto spesso -- e mi riferisco soprattutto alla professione del docente universitario -- rischiamo di privilegiare unilateralmente l'aspetto oggettivo della fede, con la conseguenza inevitabile di una certa intellettualizzazione della fede. Rischiamo cioè di sottovalutare la testimonianza personale della scelta di fede, magari allegando giustificazioni del tipo questo non può entrare esplicitamente nell'attività professionale. Ci dimentichiamo così che i Padri della Chiesa (coloro che ci hanno trasmesso la fede) sono anzitutto dei santi. Se non sono santi, non sono Padri. Proprio i santi sono i grandi modelli della fides qua, con la lezione più importante di tutte, quella della loro vita. Già Paolo VI avvertiva, con la lungimiranza straordinaria del suo magistero: «L'uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri, lo fa perché sono dei testimoni» (cfr. Evangelii Nuntiandi, 41). Balza così in primo piano, ai fini di una corretta trasmissione della fede, la categoria della testimonianza, che dagli anni del Concilio in poi ha trovato un'elaborazione teologica sempre più approfondita. In definitiva, la figura di chi forma alla vita educando nella fede è quella di una persona compatta e forte nella testimonianza: una persona in cui le parole sono intercambiabili con i fatti. Viene alla mente la testimonianza di Gandhi. Sir Stanley Jones gli chiese di rilasciare un messaggio per il mondo. Il Mahatma lo guardò, e gli rispose turbato: «non ho una parola da dire; la mia vita è il mio messaggio». Ebbene, per noi le cose vanno diversamente. Noi abbiamo la Parola: abbiamo il lieto messaggio di Gesù Cristo, abbiamo il Credo degli apostoli e della Chiesa, abbiamo la fede da trasmettere. Ma questo Vangelo -- stando alle parole-testamento di Gesù -- non può passare senza la testimonianza della vita dei credenti: Eritis mihi testes, continua a ripeterci il Maestro (Atti 1, 8).
Come recuperare la “categoria della testimonianza” nella fede vissuta?
Proprio la categoria della testimonianza qualifica in maniera decisiva il profilo del docente nell'Università Lateranense. Ferma restando la “laicità” della professione, della ricerca e dell'insegnamento (con i relativi requisiti di preparazione e competenza), chi insegna nell'Università del Papa non può che essere un testimone della fede, un esperto di quella sintesi teologica, a cui deve condurre il nostro insegnamento, qualunque sia la disciplina di partenza. Ma quante volte, mentre dicevo queste cose, mi è capitato di incontrare professori delusi, scoraggiati, rassegnati! Scoraggiati a tal punto, che la loro testimonianza ne esce appannata, e l'incidenza educativa pressoché nulla. Ebbene, vorrei chiedere oggi all'eventuale professore scoraggiato: Tu preghi? Gli studenti ti vedono pregare? Colgono il fatto che sei uomo di Dio, uomo della sua Parola? Come è la dimensione contemplativa della tua vita? Pratichi la carità? Sai accogliere il “povero”, il più bisognoso, il meno simpatico, quello studente che tutti mettono da parte perché dà fastidio? Sai farti prossimo? Cogli le occasioni utili per partecipare di più alla vita degli studenti, anche quando ti sembra di perdere il tempo? Servi la Chiesa, o ti servi della Chiesa? Sai vedere (anche nelle vicende di oggi, della Chiesa pellegrinante nel mondo) la «foresta di santità che cresce», ben oltre l'«albero che cade»? È vero: anche all'interno della Chiesa ci sono molti scandali, tante “sporcizie” che sono la dolorosa conseguenza del peccato dell'origine. Ma sai cogliere «il grande fiume» della santità e della grazia di Dio, per il quale la Chiesa stessa è santa? Oppure ti accodi troppo facilmente alle critiche ipocrite e senza amore di tanti rotocalchi e media?
I Padri stessi sono stati dei grandi comunicatori (Agostino componeva ritmi e canti per divulgare il suo pensiero). Come far riscoprire agli studenti questo aspetto del tesoro di letteratura, teologia e pensiero che è giunto fino a noi?
In verità, la comunicazione della fede, nella quale i nostri Padri erano maestri e pastori, non puntava anzitutto su una tecnica. Non voglio dire con questo che le tecniche della comunicazione, anche nell'ambito della fede, non abbiano la loro importanza (a cominciare dall'uso del microfono, con il quale sembra lottare la maggior parte dei nostri predicatori). Il discorso è piuttosto sulle priorità. Stando al magistero dei nostri Padri, la comunicazione della fede si colloca più sul versante della testimonianza di vita che non su quello della metodologia e delle tecniche. Può servire anche qui ciò che l'allora Joseph Ratzinger scriveva in Introduzione al cristianesimo a proposito del teologo. Chi si impegna a trasmettere la fede non può rischiare di apparire una specie di clown, che recita una parte per mestiere. Piuttosto -- per usare un'immagine cara a Origene -- egli deve essere come il discepolo innamorato, che ha poggiato il suo capo sul cuore del Maestro, e da lì ricava il suo modo di pensare e di agire. Alla fine di tutto, il discepolo innamorato è colui che trasmette la fede nel modo più credibile ed efficace.
«First international meeting of young catholics for social justice»: può spiegare ai nostri lettori di che si tratta?
Diciamolo senza mezzi termini: la situazione giovanile è drammatica. Non mi dilungo qui a riportare dati che sono ben noti all'opinione pubblica. Qualche osservatore ha parlato addirittura di «genocidio di una generazione». In questo contesto la Chiesa deve chiamare a raccolta tutte le sue energie, spirituali anzitutto, ma anche materiali, perché i giovani possano trovare in essa un porto sicuro. L'intento di questo meeting, che ospiteremo presso la nostra Università, è quello di dar voce a quei giovani che quotidianamente esprimono la loro fede in qualche forma di impegno sociale. I promotori dell'evento sono i giovani del movimento internazionale W4B: We're for Benedict, nato di recente a partire dai social network. Il Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, come quello della Giustizia e della Pace, hanno concesso il loro alto patrocinio. Il mio sogno, da figlio di un grande sognatore quale fu don Bosco, è che da questa esperienza possa nascere un organismo internazionale di giovani cattolici, impegnati in modo permanente a definire linee comuni di azione nel sociale.
(©L'Osservatore Romano 31 luglio 2012)
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