Il Papa ai detenuti di Rebibbia: portiamo la croce con Gesù. Don Spriano: il carcere sia degno dell'uomo
La Via Crucis come “segno di riconciliazione” con sé stessi, con Dio e la società. È questo uno dei significati che Benedetto XVI attribuisce alla celebrazione del rito sacro vissuta nel pomeriggio di ieri dai detenuti e dagli operatori del carcere romano di Rebibbia in preparazione alla Pasqua, sotto la guida del cardinale vicario, Agostino Vallini.
In un messaggio inviato per l’occasione, il Papa esorta a guardare l’esempio di Gesù, caduto e rialzatosi nonostante il peso della Croce. Il servizio di Alessandro De Carolis:
I calvari di tanti uomini in fila dietro l’Uomo del Calvario, per imparare dal Lui che ciò che conta non è essere caduti ma rialzarsi, e che la morte del disprezzo o della solitudine può conoscere la speranza di una nuova vita. Sono i sentimenti che Benedetto XVI legge nella scena della salita al Golgota e trasmette ai detenuti e agli operatori penitenziari di Rebibbia. Quando, lo scorso Natale, il Papa si era recato in visita nella Casa circondariale romana, tra i tanti ricordi che – ammette – hanno lasciato in lui un “segno profondo”, il Pontefice cita nel Messaggio la considerazione allora rivoltagli da un detenuto: il carcere serve per rialzarsi dopo essere caduti, per riconciliarsi con se stessi, con gli altri e con Dio, e poter poi rientrare di nuovo nella società. L’analogia con Cristo prigioniero lungo la Via Crucis è immediata. Quando, scrive il Papa, “vediamo Gesù che cade a terra – una, due, tre volte – comprendiamo che Lui ha condiviso la nostra condizione umana, il peso dei nostri peccati lo ha fatto cadere; ma per tre volte Gesù si è rialzato e ha proseguito il cammino verso il Calvario; e così, con il suo aiuto, anche noi possiamo rialzarci dalle nostre cadute, e magari aiutare un altro, un fratello, a rialzarsi”. Ma, si chiede Benedetto XVI, “che cosa dava a Gesù la forza di andare avanti? Era la certezza che il Padre era con Lui. Anche se nel suo cuore c’era tutta l’amarezza dell’abbandono, Gesù sapeva che il Padre lo amava”. Anche “se tutti lo disprezzavano e lo trattavano non più come un uomo, Gesù, nel suo cuore, aveva la ferma certezza di essere sempre figlio, il Figlio amato da Dio Padre”.
E questo, cari amici – afferma il Papa – “è il grande dono che Gesù ci ha fatto con la sua Via Crucis: ci ha rivelato che Dio è amore infinito, è misericordia, e porta fino in fondo il peso dei nostri peccati, perché noi possiamo rialzarci e riconciliarci e ritrovare la pace”. Anche noi allora, conclude, “non abbiamo paura di percorrere la nostra ‘via crucis’, di portare la nostra croce insieme con Gesù. Lui è con noi. E con noi c’è anche Maria, sua e nostra madre. Lei rimane fedele anche ai piedi della nostra croce, e prega per la nostra risurrezione, perché crede fermamente che, anche nella notte più buia, l’ultima parola è la luce dell’amore di Dio”.
Sulla Via Crucis a Rebibbia ascoltiamo il cappellano del Carcere, don Sandro Spriano, al microfono di Sergio Centofanti:
R. – Per noi è un evento estremamente importante ogni anno e quest’anno ancora di più, perché - sull’onda lunga della visita del Papa del 18 dicembre - abbiamo avuto la richiesta di molti cristiani di Roma di partecipare a questo esercizio religioso. Eravamo quasi 600 persone, tra detenuti ed esterni, e abbiamo meditato sul nostro destino, il Paradiso. In più c’è stato questo messaggio del Papa che avevo chiesto, anche se non in realtà non ci speravo … ma poi è arrivato! Quindi siamo molto contenti perché il Papa ha voluto subito dire che ricordava i nostri volti e questo ci ha dato la sensazione e l’emozione di sapere che non siamo una Chiesa separata dal resto delle Chiese del mondo.
D. – Com’è stato accolto dai detenuti il messaggio del Papa?
R. – Dai detenuti è stato accolto con un applauso. Non abbiamo ancora avuto il tempo di meditarlo e di digerirlo: lo faremo domani, durante la celebrazione della Domenica delle Palme. Per ora c’è stata la gioia di ricevere queste parole, che è stata espressa con un grande applauso.
D. – Come portano ancora nel cuore i detenuti la visita del Papa a Rebibbia nel dicembre scorso?
R. – Certamente quell’incontro, per coloro che hanno potuto viverlo - perché noi abbiamo 1.800 detenuti e soltanto 300 hanno potuto partecipare – non solo lo ricordano, ma lo ritengono un momento di ripartenza proprio per la loro vita personale, perché è da allora che diciamo, infatti, che bisogna riconciliarsi con se stessi, con la propria famiglia e con Dio. E molti ci credono!
D. – Come vivono i detenuti la Settimana Santa?
R. – E’ sempre, anche qui, una settimana in cui celebriamo - come in tutte le parrocchie - i riti della Settimana Santa. Qui c’è sicuramente una partecipazione emotivamente un po’ più forte, perché le tappe di questa Settimana Santa sono tappe vissute, quasi tutte, anche da chi è detenuto, seppure siamo ovviamente su due piani diversi: a Gesù guardiamo in questi giorni come all’innocente che si è donato, e qui abbiamo però la sofferenza di persone che devono imparare a donarsi.
D. – Quali sono le speranze che possono emergere da un carcere?
R. – La speranza nel carcere è sempre una: quella di evitare che il carcere diventi soltanto sofferenza. Oggi siamo in questa situazione, perché il carcere è quasi esclusivamente sofferenza e tutti sperano – io per primo – che noi cittadini liberi ci decidiamo a produrre un carcere che sia, invece, riabilitazione; che sia momento per recuperare criticamente i propri errori; che sia un luogo dove, pur soffrendo, c’è la porta aperta verso la libertà. Oggi si vive soltanto la sofferenza e quindi tutto sembra essere assolutamente inutile, perché soffrire e basta, senza avere speranza, è davvero una cosa indegna per la persona umana.
D. – Quindi se volesse lanciare un appello, per questa Pasqua, alle autorità politiche, quale potrebbe essere?
R. – Che si interessino davvero di questi 68 mila uomini, donne, bambini, vecchi che vengono buttati tra quattro mura a scontare una pena giusta, però questa pena non può diventare solo punizione, com’è adesso! Deve essere pena: una pena serve a espiare, ma serve anche a portare la persona – dovrebbe servire a portarla - verso la libertà. Se a questo i nostri politici non credono, questo carcere è soltanto una umiliazione per tutti. (mg)
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