CHIESA E ICI
Il diluvio demagogico
Nella politica e nell'informazione più fervore ideologico che rigore giuridico
Vincenzo Pacillo - docente di diritto ecclesiastico e canonico (*)
Se si sofferma ad analizzare il diluvio demagogico che ha accompagnato i recenti dibattiti sulla tassazione degli immobili di proprietà degli enti ecclesiastici, il giurista nota una serie di linee di tendenza piuttosto marcate.
La prima è la sostanziale imprecisione che accompagna non solo la descrizione della normativa vigente (peraltro complessa), ma anche l’utilizzo di categorie semantiche di carattere generale: categorie che, con un po’ di buona volontà, potrebbero essere applicate con maggiore fedeltà al dettato legislativo.
Non è corretto affermare che lo Stato italiano ha il diritto di rivedere unilateralmente il regime fiscale degli “Immobili del Vaticano”, dal momento che tale regime discende da un Trattato internazionale bilaterale (il Trattato del Laterano del 1929): quest’ultimo gode di tutela costituzionale ex artt. 7 e 10 della Costituzione, e può essere modificato solo nei casi espressamente previsti dalla Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati.
Quanto all’espressione “Immobili della Chiesa cattolica” – locuzione sovente usata non solo sui giornali ma anche nel dibattito politico – essa non è precisa, dal momento che nell’ordinamento italiano la Chiesa agisce attraverso diversi corpi morali: la Santa Sede, la Cei e gli altri enti ecclesiastici civilmente riconosciuti ex legge 222/1985.
La seconda linea di tendenza è la polarizzazione del dibattito mediatico intorno alle esenzioni fiscali a beneficio “della Chiesa cattolica”, quando invece la problematica riguarda gli immobili di una categoria ben più ampia di soggetti.
La normativa vigente esenta, infatti, dall’imposta sugli immobili, tra gli altri:
A) i luoghi di culto: e si badi, non solo i luoghi di culto di proprietà di enti ecclesiastici cattolici, ma tutti i fabbricati destinati allo svolgimento di pratiche cultuali di religioni diverse dalla cattolica, a condizione che tale destinazione abbia carattere esclusivo (va rammentato che l’articolo 2 della legge 1° agosto 2003 n. 206, ha equiparato – ai fini tributari – gli oratori ai luoghi di culto);
B) tutti gli edifici utilizzati da enti pubblici e privati, diversi dalle società e residenti nel territorio dello Stato, quando in essi vengano svolte attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative, sportive, nonché inerenti all’esercizio del culto e alla cura delle anime, alla formazione del clero e dei religiosi, a scopi missionari, alla catechesi e all’educazione cristiana, purché – in virtù dell’art. 39 del decreto-legge n. 223 del 2006, il quale ha sostituito l’art. 7, comma 2-bis del D.L. 30 settembre 2005, n. 203 – le attività ivi elencate “non abbiano esclusivamente natura commerciale”.
Ora, pare difficile a chi scrive affermare che le esenzioni fiscali di cui si tratta costituiscano un privilegio di cui godono esclusivamente gli enti della Chiesa cattolica: nessuno dubita che tali esenzioni possano essere giudicate inopportune, ma senz’altro non si può sostenere che gli enti ecclesiastici cattolici siano stati gli unici corpi morali a beneficiarne.
Di tutte queste considerazioni è difficile trovar traccia nel dibattito politico e giornalistico: e questo è un peccato, perché è forte in chi scrive la sensazione che tutta la questione delle esenzioni fiscali a beneficio di alcune categorie di immobili sia stata dominata più dal fervore ideologico che dal rigore giuridico.
Un tale atteggiamento, purtroppo, si ritrova agevolmente in altre questioni di politica ecclesiastica, come quelle relative alla costruzione di edifici di culto di minoranze religiose (diritto inalienabile costituzionalmente garantito) o alla promulgazione di una legge generale sulla libertà religiosa capace di novellare l’obsoleta normativa fascista.
Difficile per un giurista immaginare come potrà muoversi – sul terreno concreto del drafting normativo – il Governo al fine di realizzare il dichiarato obbiettivo di ridurre i soggetti che beneficiano dell’esenzione dalla “nuova” imposta sugli immobili. Due però, per quanto di nostro interesse, sono i punti fermi:
A) l’articolo 20 della Costituzione vieta qualunque discriminazione, anche di carattere fiscale, contro gli enti ecclesiastici. Ciò comporta che – qualora il Parlamento decida di eliminare l’esenzione per gli immobili in cui un ente con finalità di religione o di culto svolga una certa attività – dovrà fare altrettanto con riguardo agli immobili nei quali la medesima attività sia svolta da un ente non confessionale. Molte onlus, sindacati, patronati e associazioni culturali potrebbero così essere “travolte” dalla fine dei benefici tributari previsti dalla legislazione vigente. Nello stesso tempo, il Parlamento è senz’altro libero di assoggettare ad un’imposizione i fabbricati destinati all’esercizio del culto, ma non può poi esonerare da tale tributo edifici adibiti allo svolgimento delle attività non commerciali di gruppi sociali di carattere non confessionale. Viceversa, gli enti aventi fine di religione o di culto si troverebbero ad avere un regime giuridico deteriore rispetto a quello previsto per altri corpi morali, giacché i luoghi ove essi si trovano a svolgere una delle loro attività principali (quella del culto) sarebbero gravati da oneri fiscali non previsti per i fabbricati destinati ad accogliere le attività di enti non confessionali.
B) La legislazione in materia fiscale, per ciò che concerne gli enti ecclesiastici, non rientra nelle materie miste regolamentate in via concordataria, ed è pertanto modificabile unilateralmente da parte del Parlamento italiano. Difficile perciò capire perché la Chiesa cattolica italiana sia stata accusata di “veti” o “diktat” sulla questione: il Parlamento di uno Stato laico delibera, nelle materie di sua competenza esclusiva, in assoluta indipendenza dai poteri religiosi, avendo quale parametro il rispetto dei principi e delle regole costituzionali.
C) Alcuni enti ecclesiastici esercitano talora un’attività collaterale di carattere commerciale – avente una limitatissima rilevanza economica – in locali che non sono accatastati separatamente rispetto a quelli destinati ad accogliere le proprie ordinarie e prevalenti occupazioni di carattere non commerciale. Il tipico esempio può essere rappresentato dal convento in cui una cella o un ambulacro sia dedicato alla vendita di prodotti realizzati dai religiosi per finalità di autosostentamento: in tal caso dovremmo avere, ai fini fiscali, un’attività commerciale (giacché in tale concetto rientrano le attività dirette alla produzione di beni o di servizi, anche se svolte in via non esclusiva e anche se non organizzate in forma di impresa, ex art. 55 TUIR e art. 4 DPR 633/72) del tutto secondaria rispetto a quella principale svolta dai religiosi residenti. Nella fattispecie appena descritta – fuori da ogni demagogia – non è eccessivo sottoporre tutto l’edificio al pagamento dell’Imposta?
(*) Facoltà di giurisprudenza dell’Università di Modena e Reggio Emilia
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OT
RispondiEliminaEstratto dal libro di Mons. Georg Ratzinger "Mio fratello, il Papa"
http://www.zenit.org/article-34358?l=english
Alberto
Cio che colpisce è la passività dei vescovi che hanno ceduto alla massoneria di questo governo Monti-Berluska-Bersani...fanno come il clero di Francia prima della Rivoluzione i quali patriotticamente cedettero tutti i beni frutto dei doni dei fedeli e poi sappiamo come andò a finire.
RispondiEliminaIn questo marasma spero si salvino comunque le scuole cattoliche e si buttino a mare le iniziative sociali e terzomondiste...se ne occupino Monti e i partiti italiani.