I risultati di cinque anni di ricerche sul sacro telo condotte da una équipe specializzata dell’Enea
La scienza a tu per tu con l’impossibile
di Marco Bonatti
La Sindone continua a essere, per la scienza, un «oggetto impossibile». Impossibile, anche, da falsificare.
Nei giorni scorsi sono stati resi noti i risultati di cinque anni di interessanti ricerche condotte da una équipe dell’Enea (l’Ente nazionale italiano per le nuove tecnologie e lo sviluppo sostenibile) e dedicate alla «colorazione simil-sindonica di tessuti di lino tramite radiazione nel lontano ultravioletto».Si è cercato, cioè, di approfondire quello che è il tema centrale delle ricerche scientifiche sulla Sindone: come si sia formata quell’immagine che ai credenti evoca così potentemente la Passione del Signore e che per tutti — ma per gli scienziati in particolare — costituisce una «provocazione all’intelligenza», come la definì Giovanni Paolo II nella sua riflessione di fronte al telo, nel duomo di Torino il 24 maggio 1998.
Le ricerche dell’Enea sono state condotte per un lustro ma in particolare nel 2010, durante l’«International Workshop on the Scientific Approach to the Acheiropoietos Images» tenutosi a Frascati, nella sede dell’Enea, nel mese di maggio, utilizzando le più aggiornate fra le tecnologie attualmente disponibili (responsabili i professori Di Lazzaro, Murra, Santoni, Nichelatti e Baldacchino). L’obiettivo era di tentare la «riproduzione» dell’immagine del tessuto sindonico (e del Volto in particolare): se uno dei numerosi esperimenti effettuati da vari studiosi nel passato allo scopo di riprodurre l’immagine sindonica fosse riuscito, si sarebbe aperta la possibilità di dimostrare, con argomenti più validi, che la Sindone attualmente custodita a Torino possa essere un «manufatto», realizzato in un’epoca successiva al i secolo.
Ma anche i tentativi di riproduzione hanno evidenziato una colorazione troppo profonda e molti fili di lino carbonizzati, caratteristiche incompatibili con l’immagine sindonica. Senza contare che le prove sono state condotte su porzioni di tessuto molto piccole. Per effettuare l’esperimento su una superficie come quella della Sindone (4,36 metri per 1,10 circa) bisognerebbe disporre di una potenza di 34.000 miliardi di watt: una quantità che, osservano gli scienziati Enea, «rende oggi impraticabile la riproduzione dell’intera immagine sindonica usando un singolo laser eccimero, poiché questa potenza non può essere prodotta da nessuna sorgente di luce vuv (radiazione ultravioletta nel vuoto) costruita fino a oggi (le più potenti reperibili sul mercato arrivano ad alcuni miliardi di Watt)».
Diversamente da altri annunci sensazionali che si sono succeduti negli anni scorsi, gli scienziati dell’Enea, molto attenti a documentare tutti i passaggi del metodo di lavoro seguito, presentano con estrema cautela le proprie conclusioni, limitandosi a proporre precise considerazioni che non esulano dal campo scientifico. È una prudenza molto apprezzata da monsignor Giuseppe Ghiberti, presidente della commissione diocesana torinese per la Sindone: «Il lancio di notizie sulla Sindone assume facilmente il tono del sensazionale, ma nel caso attuale è apprezzabile il senso di misura con cui i protagonisti parlano delle loro ricerche: un fatto raro, che rende la cosa gradevole e dà alla notizia la qualifica di serietà».
Negli ultimi anni gli annunci di «nuove scoperte», «rivelazioni sconvolgenti» intorno alla Sindone sono diventati un vero e proprio genere letterario: il telo è stato associato ai templari o ai marziani; ci si è detti sicuri che sarebbe stato dipinto da Leonardo da Vinci, sottolineando certe somiglianze con l’Autoritratto; sono comparsi qua e là nel mondo campioni di tessuto sindonico di provenienza per lo meno dubbia. In molti casi, per non dire in tutti, dietro questi annunci c’era soprattutto l’opportunità di lanciare la pubblicazione di un libro o la possibilità di trovare finanziamenti per qualche ricerca. In questo la Sindone non è certo in grado di sottrarsi alle logiche dominanti del marketing. Il massiccio ingresso del «mistero sindonico» nel mondo della comunicazione di massa rende sempre più difficile, per il pubblico comune, la distinzione fra il lavoro scientifico serio, la ricerca dilettantesca e il puro opportunismo.
La storia recente delle ricerche sul telo è purtroppo ricca di manipolazioni, equivoci, fraintendimenti.
Le conclusioni degli esami condotti col carbonio 14 nel 1988, che indicarono una datazione medievale per la Sindone, risultano oggi ulteriormente indebolite dai risultati, seppure parziali, delle ricerche Enea; ma più ancora dalle carenze metodologiche con cui fu eseguito l’iter scientifico.
All’indomani delle ricerche del 1988, quando era grande lo sconcerto e l’amarezza per i risultati comunicati, il cardinale Alberto Anastasio Ballestrero, all’epoca arcivescovo e custode pontificio della Sindone, rispose così ad una intervista pubblicata su «La voce del popolo», il settimanale diocesano torinese: «Si è dato fiducia alla scienza perché la scienza ha chiesto fiducia. Ed è facile rendersi conto che l’accusa della scienza verso la Chiesa è sempre stata quella che la Chiesa ha paura della scienza, perché la “verità” della scienza è superiore alla verità della Chiesa. Quindi aver dato udienza alla scienza mi pare sia un gesto di coerenza cristiana (...) Che questo aver dato udienza alla scienza non sia costato alla Chiesa non è vero: però la Chiesa è serena, ha ribadito e ribadisce che il culto della Santa Sindone continua e che la venerazione per questo sacro lino rimane uno dei tesori della nostra Chiesa».
Oggi si attende che possa ripartire una nuova stagione di ricerche. «Le nuove tecnologie acquisite — dice ancora monsignor Ghiberti — permetteranno di compiere esami e accertamenti non invasivi sul telo; ma, soprattutto, si dovrà prestare la massima attenzione al rigore e al rispetto delle procedure scientifiche: per evitare strumentalizzazioni e per rispettare il grande significato religioso ed ecclesiale che la Sindone ha per il popolo cristiano e per tutti quelli, anche non credenti, che in quel Volto vedono la testimonianza misteriosa di un amore senza fine».
(©L'Osservatore Romano 29 dicembre 2011)
Prima della seconda guerra mondiale fu trasferita in gran segreto nel Santuario dei benedettini di Montevergine, alle pendici del monte Partenio
Quando la Sindone andò ad Avellino
Giovanni Preziosi
Fiumi d’inchiostro sono stati versati finora sulla reliquia più venerata dalla cristianità: il “sacro lenzuolo” che, secondo la tradizione, avrebbe avvolto il corpo di Gesù nel sepolcro prima della Resurrezione. Durante i secoli, infatti, un’aura di mistero ha circondato i racconti dei suoi numerosi spostamenti. Del resto fino a pochi anni fa non molti sapevano che, proprio alla vigilia della seconda guerra mondiale, la Sindone — allora in possesso dei Savoia — fu trasferita, nel più stretto riserbo, alle pendici del monte Partenio, una località alle porte di Avellino dove sorge il Monastero benedettino di Montevergine. La scelta di questo cenobio da parte dei Savoia non avvenne soltanto per i requisiti di sicurezza che garantiva la zona, ma soprattutto per i legami con i monaci benedettini che affondavano le radici fin dal lontano 1433, allorché Margherita, figlia del celebre duca Amedeo VIII di Savoia — che tra il 1439 e il 1449 divenne antipapa con il nome di Felice v — in segno di devozione e riconoscenza verso la Madonna di Montevergine per essere scampata a un naufragio donò alla comunità monastica uno splendido affresco trecentesco di scuola senese attribuibile a Pietro Cavallino dei Cerroni. Senza contare, poi, che l’abate Guglielmo De Cesare (1859-1884) fu il postulatore della causa di beatificazione di Maria Cristina di Savoia, di cui in seguito divenne anche il primo e più autorevole biografo. Da allora i rapporti tra la comunità e i Savoia si andarono sempre più consolidando e, pertanto, anche grazie a quest’amicizia di lunga data, verso la fine di settembre del 1939, si decise di trasferire presso il santuario di Montevergine la Sindone, considerati i tempi tutt’altro che tranquilli.
A quell’epoca, infatti, il quadro politico internazionale non lasciava presagire nulla di buono: il primo settembre l’esercito tedesco aveva invaso la Polonia. Il 3 settembre successivo, la Gran Bretagna e la Francia si decisero a dichiarare guerra alla Germania, mentre l’Italia aveva proclamato la non belligeranza, giustificando la deroga al Patto d’acciaio con l’impreparazione militare che non le consentiva, in quel momento, di affrontare una guerra lunga e logorante. Di fronte alla trama negativa di questi ultimi eventi, Vittorio Emanuele III si convinse dell’assoluta necessità di mettere al più presto al sicuro la preziosa reliquia, in modo da sottrarla a qualsiasi pericolo. Dunque, come si evince anche da questa vicenda, si può dedurre chiaramente, al di là di ogni ragionevole dubbio, che Casa Savoia — sin dal settembre del 1939 — era ormai consapevole dell’entrata in guerra dell’Italia al fianco dell’alleato teutonico con tutte le prevedibili conseguenze disastrose che si potevano facilmente immaginare. Proprio per questo motivo i Savoia avevano ritenuto opportuno trasferire in gran fretta la Sindone dalla cappella di Palazzo reale a Torino, dove era custodita, presso il palazzo del Quirinale. Tuttavia, nel timore di incursioni dei cacciabombardieri anglo–americani, decisero di rivolgersi al Vaticano, ritenendo che quel luogo offrisse maggiori requisiti di sicurezza. Di lì a poco si cercò ancora un’altra sistemazione in quanto, secondo il principe ereditario Umberto, anche questo luogo non si prestava a custodire adeguatamente la preziosa reliquia. Fu immediatamente interpellato il sostituto della Segreteria di Stato di Sua Santità per gli Affari ordinari, monsignor Giovanni Battista Montini, col preciso intento di persuaderlo a interporre i suoi buoni uffici per il trasferimento del sacro telo all’interno delle mura vaticane. Dopo aver esaminato a fondo la delicata questione, la Santa Sede comunicò ai Savoia che, purtroppo, anche quel luogo non poteva garantire un’adeguata protezione dal pericolo di un eventuale bombardamento. Di conseguenza il 7 settembre 1939 Montini provvide a inviare un telegramma all’abate di Montevergine, monsignor Ramiro Marcone, nel quale scriveva laconicamente: «sarebbe desiderata quanto prima sua venuta Roma». Il prelato benedettino si mosse subito, non immaginando neanche lontanamente il motivo di quell’invito così pressante. Montini lo mise subito al corrente, senza tante circonlocuzioni, del fatto che «S. M. Vittorio Emanuele III desiderava affidare al Vaticano la preziosa reliquia della Santa Sindone, già ricoverata nel Quirinale per salvarla dai pericoli dei bombardamenti. La Segreteria di Stato di Sua Santità aveva fatto presente al Sovrano che il Vaticano era ugualmente esposto e in pericolo come il Quirinale, e che Sua Eminenza il cardinale Maglione, Segretario di Stato, personalmente consigliava come sicuro ricovero il Santuario di Montevergine».
In effetti bisogna osservare che la Santa Sede — e in modo particolare il segretario di Stato, cardinale Luigi Maglione — nutriva nei confronti dell’abate Marcone una profonda stima tant’è che, a distanza di appena due anni da questo evento, per la precisione nell’estate del 1941, comunicava al presule benedettino che, su sua proposta, il Papa aveva deciso di affidargli una delicata missione, incaricandolo di recarsi nello Stato indipendente di Croazia in qualità di rappresentante papale con il titolo di visitatore apostolico presso l’episcopato, allo scopo di allacciare rapporti anche con il governo del nuovo Stato balcanico. Il cardinale Maglione, infatti, prima di esprimere il suo parere sul trasferimento della Sindone presso il santuario benedettino, si era recato personalmente a Montevergine, in compagnia del vescovo di Pozzuoli, monsignor Alfonso Castaldo, del fratello sacerdote e di due suoi nipoti, per compiere un sopralluogo e constatare se la zona possedeva i necessari requisiti di affidabilità. Il responso si rivelò favorevole e a quel punto, com’è facile immaginare, l’abate non solo non espresse alcuna obiezione al riguardo, ma rimase lusingato che proprio il santuario fosse stato scelto per custodire, seppur temporaneamente, questa preziosa reliquia. Presi i dovuti accordi, il 25 settembre 1939, verso le 15 giunsero a Montevergine due automobili della Casa reale, provenienti dalla capitale, con a bordo i due cappellani del re, monsignor Paolo Brusa e monsignor Giuseppe Gariglio, che portavano con loro la Sindone. La reliquia venne collocata sotto l’altare del Coretto di notte — fatto realizzare nel lontano 1632 dall’allora abate Gian Giacomo Giordano per la salmodia dei monaci — mettendola al riparo da occhi indiscreti, dopodiché si procedette a siglare gli atti della consegna ufficiale.
«L’anno millenovecentotrentanove il giorno 25 del mese di settembre — si legge nel verbale di consegna e di deposito temporaneo della Sindone — in esecuzione degli Ordini di Sua Maestà il Re ed Imperatore, comunicata a voce dal Suo Ministro, S.E. il Conte Senatore del Regno Piero Acquarone, e, previa intesa con la S. Sede, esperite pel tramite del Suo Cappellano Maggiore, Mons. Giuseppe Beccaria, in uno dei locali dell’Abbazia Nullius Diocesis di Montevergine (provincia di Avellino) sono intervenuti S.E. Reverendissima il Padre Giuseppe Ramiro Marcone, nella sua qualità di Abate Ordinario della detta Abbazia, Mons. Paolo Brusa, Cappellano di Sua Maestà il Re ed Imperatore, nella sua qualità di custode della SS. Sindone, nonché il Reverendissimo Padre D. Bernardo Rabasca, Priore del detto Santuario, ed il Reverendissimo Mons. Giuseppe Gariglio, quali testimoni per procedere alla consegna di cui qui sotto. Premesso che per misure precauzionali, atteso l’attuale stato politico internazionale, si è riconosciuta l’opportunità di trasferire in luogo più sicuro di quello dove viene abitualmente custodita e venerata la Reliquia della SS. Sindone in Torino, nella sua Cappella omonima dentro il Palazzo Reale, si è scelto all’uopo, per altissimo suggerimento, come luogo che offre le maggiori garanzie di sicurezza e di incolumità, il detto Santuario di Montevergine. E pertanto, dopo essere stata tolta dall’abituale suo luogo la cassetta d’argento contenente la detta Reliquia e disposta in una cassa di legno, chiusa a viti, foderata di tela bianca ricucita all’ingiro e cinta con spago recante ai nodi il sigillo di piombo con le iniziali del Conte Generale Giovanni Amico di Meane, Reggente dell’Amministrazione della Real Casa in Torino, giusta l’analogo verbale del 7 settembre 1939, essa cassa contenente l’insigne Reliquia venne portata a Roma il giorno dopo, 8 settembre, accompagnata dal menzionato Cappellano di Sua Maestà, Teol. Don Giuseppe Gallino, e deposta provvisoriamente nella Cappella detta di Guido Reni dentro il Palazzo Reale del Quirinale. Da qui, il giorno 25 settembre 1939, dopo fattosi il debito riconoscimento della cassa e constatatone l’integrità, essa è stata presa in consegna dal detto Mons. Brusa, custode della SS. Sindone, dal menzionato Gariglio, Cappellano di Sua Maestà, entrambi incaricati dalla Real Casa, i quali in automobile l’hanno portata in questo Santuario per essere temporaneamente e a titolo di deposito quivi custodita».
Allegato a questo documento fu stilato anche un altro verbale aggiuntivo che — come rilevato in precedenza — lascia intendere chiaramente come ormai Casa Savoia, fin dal settembre del 1939, fosse persuasa dell’imminente entrata in guerra dell’Italia e temesse che, prima o poi, ci sarebbero state delle pericolose incursioni aeree che avrebbero potuto seriamente compromettere l’incolumità della sacra reliquia. Per ovviare a questo inconveniente, sebbene la cassa fosse stata collocata in un luogo sicuro nel muro maestro alla profondità di 88 metri quasi a ridosso della montagna, per maggior precauzione si stabiliva che l’abate Marcone, in caso di pericolo imminente, «data la potenza formidabile di esplosione di certe bombe», avrebbe potuto, di sua spontanea volontà, trasferire la cassa nella galleria artificiale, profonda circa 145 metri, scavata nella roccia viva che distava appena un centinaio di metri dal Coretto di notte, alla quale si poteva accedere attraverso il corridoio del monastero senza esporla al pericolo di dover uscire all’esterno del santuario. Per ovvi motivi, la Sindone fu tenuta lontana da occhi indiscreti e custodita nel più stretto riserbo al punto che, ufficialmente, erano al corrente della sua presenza soltanto l’abate Marcone, il priore dom Bernardo Rabasca, il vicario dom Anselmo Tranfaglia, il superiore “invernale” del santuario e il padre sacrista che s’impegnarono «a conservare gelosamente il segreto». Nel frattempo, a Montevergine, nonostante lo scrupoloso riserbo, col quale i monaci custodivano la Sindone, si verificò in quei giorni un episodio che, come scrisse il padre Federico Renzullo, a quel tempo ospite del monastero, rischiò di mettere alcune persone sulla pista giusta per scoprire la preziosa reliquia. «Un giorno a Montevergine — scrive sul filo della memoria lo stesso sacerdote — [fu] un tramestio inconsueto, un andare affannoso avanti e indietro, un bisbigliare sommesso e misterioso. Ma nessuno seppe in quel giorno rendersi conto del singolare avvenimento». Quindi, dopo aver accennato a coloro i quali erano al corrente del segreto, continuava: «Intanto un vecchio sacerdote, il Can. Paolo Brusa, custode della S. Sindone, che era giunto improvviso sul monte, aveva voluto celebrare la S. Messa all’Altare della Cappella del Coro di Notte. I monaci, intuito il mistero, anche da questa celebrazione in luogo insolito, cor[sero]al Messale, svolg[endo] i fogli (...) Il vecchio prete aveva celebrato la Messa propria della S. Sindone. Avevano carpito il grande mistero. Ma l’intuizione che tra quella Messa celebrata in luogo così insolito e il grande mistero da scoprire ci dovesse essere un qualche evidente rapporto era loro balenato alla mente dalla osservazione commossa delle molte copiose lacrime che il sacerdote aveva versato durante tutto il tempo della celebrazione del Sacrificio».
Recentemente è stata avanzata una suggestiva ipotesi secondo la quale il trasferimento della sacra reliquia a Montevergine fu disposto, in realtà, per impedire che finisse nelle mani del Führer che, fin dalla sua visita in Italia del 1938, aveva sguinzagliato i suoi uomini per scovare la preziosa reliquia e trafugarla allo scopo di assecondare le manie esoteriche che condivideva con Himmler e molti altri gerarchi nazisti, come paventava lo stesso arcivescovo di Torino, il cardinale Maurilio Fossati, in un testo pubblicato nel novembre del 1946 sul bollettino ufficiale della Curia sostenendo che anche se il sacro telo fosse stato «rispettato dalle bombe, non sarebbe forse stato rispettato dall’invasore che si affrettò a chiederne notizie».
Era noto, infatti, che reliquie tradizionalmente connesse con la Passione di Cristo facevano gola a Hitler al punto che, in seguito, riuscì a impossessarsi della Lancia di Longino custodita nel Tesoro imperiale di Vienna, incaricando il colonnello delle ss Otto Rahn di cercare persino il Santo Graal. Tuttavia, l’improvvisa irruzione nel settembre del 1943 all’interno del santuario di Montevergine delle truppe naziste, va piuttosto interpretata come una normale perquisizione. Se infatti i nazisti fossero stati davvero convinti di aver fiutato la pista giusta per ritrovare la Sindone di certo non avrebbero esitato a mettere a soqquadro l’intero complesso monastico per trafugarla.
In realtà, come attesta anche il solerte cronista benedettino, poiché il 14 settembre 1943 i caccia bombardieri b–26 americani avevano sganciato sulla città di Avellino varie decine di bombe di medio calibro, i militari tedeschi sul far della sera vedendo dei riflessi di luce che partivano proprio dal santuario, subito si precipitarono a Montevergine immaginando che quelle fossero delle segnalazioni a opera di qualche spia che si celava all’interno del monastero, mentre si trattava semplicemente dei riflessi lunari sui vetri delle finestre. Alle 23 giunse improvvisamente a Montevergine un’automobile con a bordo alcuni militari tedeschi i quali, poiché il portone esterno era sbarrato, suonarono insistentemente il campanello.
Nel frattempo i due padri che erano di vedetta sull’Osservatorio si accorsero dell’insolita visita e subito corsero ad avvertire il superiore, visto che l’abate si trovava ancora in missione a Zagabria. Così, ancora ignari di quanto stava loro per accadere, i monaci si precipitarono ad aprire. Furono accolti dai tedeschi con i fucili spianati. I soldati fecero intendere di aver visto dalla pianura dei minacciosi riflessi di luce a Montevergine, per cui avevano pensato che tra le mura del monastero benedettino si nascondessero delle spie; aggiungendo con un tono che non ammetteva repliche: «Noi già volere sparare (...) ma noi essere buoni e quindi avvertire. Luce essere là e così dicendo indica[rono] l’Ospizio Nuovo. Là vedere altra volta luce, già puntato cannoni, sparare!».
A distanza di pochi giorni, il 20 settembre successivo, altri quattro tedeschi si presentarono al santuario con l’intento di perquisire i locali. A ogni modo, dopo essersi «affoga[ti] in quattro bicchieri di ottimo vino» ripresero la strada del ritorno. Poco dopo ne giunsero altri sempre in cerca di qualcosa di cui impossessarsi. Tuttavia, il loro bottino fu magro, poiché non riuscendo a trovare granché, si dovettero accontentare di alcune sigarette. Comunque, nonostante ciò, il segreto non trapelò. I numerosi pellegrini che affluivano al Santuario non nutrirono il benché minimo sospetto che in quel luogo fosse custodito il sacro lenzuolo.
Alla fine della guerra, dopo il referendum istituzionale e la proclamazione della Repubblica, il 28 ottobre 1946, come disposto dalla Real casa, la Sindone fu riconsegnata al cardinale Fossati che, accompagnato da monsignor Brusa, giunse a Montevergine «per riportarla, sempre in forma riservatissima, nella sua cappella in Torino».
(©L'Osservatore Romano 29 dicembre 2011)
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