domenica 12 febbraio 2012

Parte del collegio cardinalizio vuole sapere cosa sta succedendo a Roma. C’è la sensazione che non tutti, a Roma, lavorino per il bene della Chiesa, quanto per se stessi (Rodari)

Il Papa guarda agli Usa per metter pace a Roma

Sabato nominerà 22 cardinali: per rispondere alle accuse di investiture troppo europee ha affidato allo statunitense Dolan la relazione introduttiva del summit a porte chiuse

di Paolo Rodari

Sabato prossimo Benedetto XVI concederà la berretta cardinalizia a ventidue nuovi cardinali. Il giorno prima, venerdì, un summit a porte chiuse vedrà il Papa ascoltare le relazioni di alcuni porporati innanzi a tutto il collegio cardinalizio.
Si parlerà di nuova evangelizzazione - un tema caro al Pontefice tanto che ha recentemente affidato a monsignor Rino Fisichella un nuovo «ministero» ad hoc - ma è evidente che il clima pesante di questi giorni influenzerà la discussione. L’aria, entro le mura leonine, è incandescente.
Parte del collegio cardinalizio vuole sapere cosa sta succedendo a Roma. A preoccupare non sono soltanto le divisioni tra porpore evidenziatesi, in maniera a tratti imbarazzante, dalla pubblicazione della lettera al Papa di monsignor Carlo Viganò, nunzio a Washington, che accusando il Vaticano di essere un enclave di «corrotti» punta il dito contro la gestione della finanza d’oltretevere, e dall’ultimo documento del cardinale Darío Castrillón Hoyos che profetizza un’imminente morte del Pontefice. C’è di più, in sostanza la sensazione che non tutti, a Roma, lavorino per il bene della Chiesa, quanto per se stessi.
Quando lo scorso 7 gennaio il Papa annunciò il concistoro, molti osservatori notarono lo sbilanciamento di porpore non soltanto italiane (sette su ventidue) ma soprattutto romane, nel senso di presuli già in forza alla curia romana (dieci in tutto). Insieme notarono che tra i 22 nuovi cardinali non c’era nessun cardinale africano, nessun vescovo residenziale dell’America Latina e nessun vescovo del Medio Oriente. Uno sbilanciamento significativo, già presente tra l’altro nel concistoro del novembre del 2010 in occasione del quale in molti parlarono di «un nuovo partito romano» e dello «spostamento in Europa e in Italia dell’equilibro di un futuro conclave».
Forse, anche per ovviare a questo dato di fatto, Papa Ratzinger ha deciso di affidare la relazione introduttiva del summit di venerdì a un presule esterno ai giochi di potere romani, l’arcivescovo di New York Timothy Dolan, già capo della conferenza episcopale statunitense. La sua relazione è attesa come una boccata d’aria fresca in un summit dove i rancori e le divisioni potrebbero prendere il sopravvento. Dolan, nella filiera di quei «conservatori creativi» che anche una rivista di tendenza progressista come il National catholic reporter elogia per la sua apertura di vedute e soprattutto di prospettive, è uno dei migliori interpreti del sogno ratzingeriano di una «nuova evangelizzazione» capace di espandersi soprattutto nell’occidente secolarizzato. Ha detto di lui il vaticanista americano John Allen: «Dolan è un comunicatore naturale, un uomo capace di proiettare un’immagine positiva del cattolicesimo nella pubblica piazza», in sostanza uno dei migliori «frontman» del cattolicesimo d’oltreoceano.
È convinzione di molti, oggi, che a una certa stanchezza del cattolicesimo europeo potrà rispondere in modo positivo la vitalità statunitense. Non c’è soltanto Dolan. C’è anche Charles J. Chaput, arcivescovo di Filadelfia: nato in una famiglia contadina del Kansas, della tribù pellerossa dei Prairie Band Potawatomi, francescano cappuccino, era dal 1997 vescovo di Denver, nel Colorado. Fa parte della schiera dei vescovi «ortodossi affermativi», e cioè molto decisi nell’affermare la presenza della chiesa cattolica nella società, senza compromessi né annacquamenti. Di se stesso Chaput disse: «Vorrei riuscire a essere creativo e contemporaneo, applicando tuttavia quell’insegnamento e quella vita strutturale alla chiesa locale». Di presuli siffatti Benedetto XVI sta riempiendo le diocesi statunitensi. A Los Angeles ha mandato José H. Gómez. «A conservative bishop for Los Angeles», titolarono i giornali quando Gómez ad aprile 2010 venne indicato come futuro successore del cardinale Roger Mahony.
Messicano, fa parte dell’Opus Dei. Leader dei cattolici ispanici americani, nel 2005, quando era arcivescovo di Sant’Antonio, venne nominato dal Time Magazine tra i più influenti ispanici degli Stati Uniti.
È questa nuova leva la speranza di una Chiesa divisa al suo interno a livello gerarchico? Per molti sì. Per molti sono loro che potranno far sì che Papa Ratzinger non «fugga per paura dinanzi ai lupi», coma aveva detto nella messa di inizio del suo pontificato, prevedendo, forse, che molti di questi lupi li avrebbe trovati in casa.

© Copyright Il Giornale, 12 febbraio 2012 consultabile online anche qui.

2 commenti:

raffaele ibba ha detto...

Tira acqua al suo mulino ... può essere che sugli Usa abbia ragione, non conosco la situazione.
Sull'Europa ha torto.
ciao
r

Anonimo ha detto...

E quale sarebbe il suo mulino?
Il tuo, in compenso, è evidente.